Paradiso fiscale, inferno sociale

L'Espresso

Di Robeta Carlini e Francesa Sironi

Ridurre le tasse alle imprese per attrarre capitali. È la ricetta di molti governi. Ma oltre un certo limite diventa una corsa al ribasso. Che alla fine danneggia tutti.

Il “caso Embraco”, lo stabilimento piemontese minacciato di trasferimento in Slovacchia al costo di 500 licenziamenti, non è “un”caso. È una copia carbone di tante delocalizzazioni già viste. Soprattutto, è un modello delle nuove rotte che hanno preso le aziende. Dovute non più alla ricerca di risparmi sul costo del lavoro, ma soprattutto ai vantaggi fiscali proposti da un vicino all’altro dell’Unione. La differenza, spostandosi di poco, può essere enorme: le aliquote per le tasse sulle imprese vanno dal 33 per cento della Francia al 12,5 di Cipro, fino al 10 per cento della Romania. Senza contare il mix di regole che danno la possibilità di muovere la base imponibile dove conviene di più.

Un report della Commissione Europea ha elaborato una classifica del dumping sull’imposta societaria. Lo ha fatto misurando l’Aggressive Tax Planning, un indice composto da 33 voci che entrano nel dettaglio dei sistemi messi in atto dalle compagnie per trasferire i profitti da una piazza all’altra. Risultato? L’Olanda al primo posto, seguita dai paradisi di Malta, Cipro, Irlanda, Lussemburgo; gli astri nascenti dell’Est, come l’Ungheria; e un imbarazzante piazzamento del Paese ospite delle istituzioni europee, il Belgio. È in questo suq di offerte al ribasso che aziende e multinazionali si muovono verso chi assicura meno imposte. Lasciandosi alle spalle ferite sociali profonde. Oltre ai big della tecnologia o della finanza, abituati ad acquartierarsi dove gli Stati chiedono poco, a seguire le rotte del fisco leggero sono anche aziende storiche, come la K-Flex, nata e cresciuta in provincia di Monza, traslocata l’anno scorso in Polonia. Imitando a sua volta l’esempio di altri.

Un processo inevitabile? No, dicono gli attivisti francesi che hanno occupato un negozio Apple di Parigi al grido “On arretera quand Apple paiera”, o i librai inglesi che hanno denunciato come Amazon paghi undici volte meno tasse di loro sulle vendite di libri nel Regno Unito. «Qualcosa si muove», dice anche Eva Joly, pasionaria della lotta contro i paradisi fiscali, vicepresidente della commissione d’inchiesta del Parlamento Ue su riciclaggio ed evasione e membro di Icrict, un organo indipendente per la riforma della tassazione delle multinazionali, nel cui board siedono economisti come Joseph Stiglitz e Thomas Piketty (vedere intervista a pag. 53).

Perché le aziende, per definizione, fanno i loro interessi: vanno dove pagano meno. I veri responsabili sono gli Stati, i governi: che invece di fermare la corsa al ribasso, la alimentano facendosi dumping fiscale reciproco. Icrict ha appena pubblicato un rapporto nel quale propone un nuovo sistema retto su due pilastri: tassare i profitti dove si producono e introdurre un’aliquota unica uguale per tutti i Paesi. Significherebbe recuperare somme evase o eluse al fisco per 500 miliardi di dollari all’anno. È una proposta radicale, pensata su scala globale. Ma che potrebbe avere un primo un banco di prova, sia pure in versione moderata, nella nostra Europa piagata dalle scorribande dei nuovi monopolisti digitali e dalle delocalizzazioni interne.

L’obiettivo non è nuovo: consapevole dei danni causati da differenze tanto marcate sulle imposte in un mercato unico, il Consiglio Europeo si mosse già nel 1997, con l’allora Pacchetto fiscale Monti. Proponeva, ad esempio, l’adozione di un codice di condotta comunitario sulla tassazione delle società. Vent’anni dopo però siamo ancora al punto zero. E la guerra degli sconti continua a fare vittime. La Cisl ha fatto un primo censimento (solo per la meccanica) delle delocalizzazioni intraeuropee viste in Italia negli ultimi anni. Compaiono la Comestero di Gessate, da 140 operai a 35, oggi in Polonia; la Faac in Bulgaria; la Koning delle catene d’auto che ha detto addio a Lecco preferendovi la Repubblica Ceca; l’Abb che ha spostato la gestione delle pratiche amministrative da Sesto San Giovanni a Cracovia.

Fra le vicende più citate in riferimento a Embraco, c’è però sicuramente la succitata K-Flex di Roscello, in Brianza. Le somiglianze sono molte: contributi pubblici per la ricerca, buoni risultati, e - nonostante questo -  trasferimento a est. «Facemmo oltre 100 giorni di sciopero, nel 2017, si parlò molto di noi, ma niente», racconta Matteo Moretti, sindacalista Cgil che ha presidiato la fabbrica ogni notte: «Per gli operai il giudice ha stabilito un risarcimento, ma hanno perso il lavoro. Pochi hanno ricominciato, e precari».

Quella protesta convinse la regione Lombardia a varare un piano anti-delocalizzazioni, approvato pochi giorni fa. «Ma la toppa è peggiore del danno», commenta Moretti: «Perché si limita al contrasto dei trasferimenti extra Ue, avallando di fatto gli altri». Ovvero proprio quei traslochi intra-europei sempre più frequenti. «Penso al distretto comasco», racconta Francesco Di Salvo, Cgil: «Abbiamo visto molte imprese trasferirsi di pochi chilometri, nel Ticino svizzero. Il risparmio non è sul costo del lavoro: i vantaggi stanno nei “costi di sistema”, tasse in testa».

«Molti miei colleghi parlano di “concorrenza fiscale”, ritenendola un fattore positivo», dice Fabiano Schivardi, professore di Economia all’Università Luiss di Roma: «Io penso invece che sia necessario parlare di dumping, perché questa concorrenza verso il basso non porta benefici. Anzi. È una pratica assolutamente negativa». Che va combattuta «ristabilendo un equilibrio, condiviso dalla popolazione», partendo dalla battaglia «per armonizzare i regimi fiscali nella Ue».

«È in Europa che deve iniziare questa battaglia», concorda Eva Joly. «La Commissione Ue ha elaborato una proposta per superare alcuni degli squilibri in corso. In particolare, per frenare i meccanismi che permettono alle aziende di spostare profitti attraverso operazioni infra-gruppo. Lo schema della Commissione vuole introdurre parametri oggettivi: quanti dipendenti una multinazionale ha in un Paese, quanti stabilimenti e immobili, quanto vende. Tra pochi giorni il parlamento di Strasburgo dirà la sua sulla proposta», dice Joly. La somma recuperabile in questo modo è stimata tra i 50 e i 70 miliardi di euro all’anno. Ma gli ostacoli non mancano: «Il principale problema restano alcuni Stati membri», dice July, elencandoli: Irlanda, Olanda, Lussemburgo, Malta, Cipro. «Circa 24 milioni di abitanti sui 500 milioni dell’Unione, Paesi che vivono dell’industria finanziaria nata attorno al loro status di paradisi fiscali».

La gara di regali alle multinazionali avviene anche all’interno della stessa Ue.
Con paesi come Olanda, Belgio, Irlandae Lussemburgo in testa alla classifica

A Dublino, ad esempio, già alzano le difese: «Per la nostra economia sarebbe peggio della Brexit», há detto l’Advisory Council del governo irlandese; e sia gli eurodeputati centristi del Fine Gael sia quelli di sinistra del Sinn Fein sono contro. Va detto anche che la proposta si limita a chiudere le scappatoie ai profitti: non fissa l’aliquota dell’imposta sulle società, che resta nella sovranità di ogni Paese. Diversa la proposta dell’Icrict, la Commissione indipendente che ha raggruppato i maggiori studio-si e attivisti mondiali sui temi della giustizia fiscale. «La nostra proposta è su scala mondiale, e prevede un’aliquota minima», spiega Tommaso Faccio, direttore generale dell’Icrict. «Bisogna fissare un asticella sotto la quale la tassazione non può scendere». Dovrebbe essere tra il 15 e il 25 per cento. Una tassa piatta mondiale, a beneficio dei contribuenti del mondo ricco e dei paesi in via di sviluppo che - ricorda Faccio - perdono almeno 200 miliardi di dollari l’anno dall’evasione ed elusione fiscale delle multinazionali. 

vedere l'intervista di Piketty

Vedere il PDF